Sconfiggere il virus col gioco all'italiana


Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. In questi giorni concitati non riesco a togliermi di testa questa frase, originariamente attribuita ad Sant'Agostino. 

Di mestiere non faccio l’epidemiologo, né il virologo: sono un biologo molecolare. Ho però iniziato a seguire i numeri dell’epidemia di COVID-19 con crescente apprensione fin dalla sua prima esplosione, che aveva fatto immediatamente sospettare un fenomeno grave, almeno quanto la SARS e la MERS. A guardarlo bene, questo nuovo coronavirus aveva caratteristiche decisamente più inquietanti fin dall’inizio. Con la sua letalità più bassa di SARS e MERS e la sua maggiore capacità di diffondersi, in forma anche asintomatica, il COVID-19 minacciava di essere il virus pandemico che tutti temevano da anni. 

Eppure, inizialmente mi sentivo molto ottimista. Il mondo aveva già fermato due virus simili e sembrava aver attuato un buon contenimento. Il problema risultava sostanzialmente confinato alla Cina, in particolare alla provincia di Hubei. Ad aumentare l’ottimismo, intorno al 20 febbraio la curva dei nuovi casi in Cina si era sostanzialmente stabilizzata. 


Ammetto che l’esplosione del contagio in Corea del sud, Iran e Italia è stato anche per me un fenomeno totalmente inatteso, un vero choc. Da allora, ho dovuto constatare che la caratteristica più diabolica di questo virus è la sua capacità di indurci a sottovalutarlo. Nella maggior parte dei focolai epidemici più attivi si è verificata una ripetizione dello stesso schema: si comincia a preoccuparsi solo quando i reparti ospedalieri iniziano a ricoverare diversi pazienti colpiti da una subdola forma di polmonite, troppo spesso letale. Da quel momento, si viene rapidamente sommersi da uno tsunami di nuovi casi e ci si rende conto che una proporzione enorme della popolazione e del personale sanitario è già stata infettata.


Abbiamo fatto questo errore in Italia, pensando che il problema fosse solo della Cina. Hanno fatto questo errore quasi tutti i nostri partner europei, pensando che il problema fosse solo cinese e italiano. Hanno fatto questo errore gli Stati Uniti, pensando di poter prevenire l’arrivo del virus, e il Regno Unito, pensando addirittura che fosse meglio lasciarlo sfogare in fretta per non bloccare l’economia. Ha fatto questo errore l’OMS, che prima ha cercato di limitare l’uso dei test ai soli casi sintomatici, ma dopo aver dichiarato (tardivamente) la pandemia il 12 marzo, ha cominciato a urlare: test, test, test! Tutti quelli che hanno sottovalutato il virus stanno pagando in questi giorni un salatissimo tributo, in vite umane e congelamento economico, di cui non è ancora possibile stimare l’entità finale.


Eppure, se ci fossimo presi il disturbo di studiare come la Cina è riuscita a rimettere il coperchio su questo terribile vaso di Pandora, avremmo potuto capire da molto tempo che non era il caso di stare sereni, e che avremmo fatto meglio a prepararci ad un’aspra battaglia. Siamo stati colti impreparati, al punto che alcuni Stati cominciano a temere che oramai non si possano limitare i danni senza distruggere la propria economia. Abbiamo subito una clamorosa disfatta, pur avendo avuto almeno due mesi per prepararci al diluvio. Il drammatico dato di 700 morti al giorno in Italia, quando l’epidemia sembrava essersi un po' raffreddata, non induce certo a grande ottimismo.


Tuttavia, ritengo che un’analisi approfondita della storia dell’epidemia nella città di Wuhan possa farci vedere la possibilità di una luce, se ci decidessimo una buona volta a guardare in faccia la realtà. Se intraprendessimo, con tempi adeguati, le misure necessarie ad evitare un’affannosa e inefficiente rincorsa ai progressi del virus.


La storia di Wuhan è stata raccontata nel dettaglio in un articolo pubblicato in rete il 6 marzo 2020, da un team di ricercatori della Huazhong University of Science and Technology di Wuhan, in collaborazione con la Prof.ssa Xihong Lin di Harvard  (https://doi.org/10.1101/2020.03.03.20030593). Volendo, si può riassumere in un grafico: la curva dei nuovi casi che si sono verificati a Wuhan nel periodo compreso tra il primo gennaio e il 18 febbraio di quest’anno. Si tratta però di una curva complicata, il cui andamento è stato determinato dallo scontro tra le caratteristiche del virus e gli interventi, progressivamente più duri, applicati per combatterlo. Per renderla più comprensibile, la paragonerei a una partita di calcio:


Wuhan contro COVID-19.


La partita si svolge in tre fasi principali. La fase iniziale va dalla seconda metà di dicembre, quando emergono i primi casi, al 22 gennaio. Dal punto di vista matematico, questa fase è caratterizzata da un aumento esponenziale dei casi, riassumibile nel parametro R0, che indica l’efficienza di trasmissione del contagio da individuo a individuo. All’inizio R0 è molto alto: 3,87. In pratica, significa che ogni paziente trasmette in media la malattia ad altri 4. In termini calcistici, un’apocalisse!  E’ il risultato che si otterrebbe giocando senza portiere e senza difesa. Anche a Wuhan in questa prima fase il pericolo è enormemente sottovalutato, malgrado i ricordi sinistri della SARS. All’inizio le autorità non fanno assolutamente niente, anzi, cercano di ignorare e addirittura nascondere l’esistenza di un problema. Dal mercato del pesce, il contagio si diffonde rapidamente al centro della città, alle zone suburbane e infine alle campagne. Gli ospedali cominciano a ricoverare decine di pazienti con la polmonite e un numero elevato di sanitari rimane contagiato. Il 20 gennaio viene cambiato l’allenatore, con la nomina di un noto scienziato esperto di SARS, il Prof. Nanshan Zhong. Insieme a un team di esperti, dichiara immediatamente che oramai il virus si trasmette da uomo a uomo. La marea cresce fino a 1200 casi al giorno e il 23 gennaio a Wuhan viene dichiarato il ‘lockdown’.


Si passa così alla fase due, con le misure che purtroppo abbiamo imparato a conoscere bene: isolamento delle città dal mondo esterno, blocco dei trasporti metropolitani, della circolazione dei mezzi privati, cancellazione degli eventi pubblici, mascherine e guanti, aumento delle distanze sociali. In termini calcistici potremmo dire che in questa fase Wuhan passa dal non avere difesa ad una strategia di ‘catenaccio’. Difendere bene è essenziale per non prendere goal stupidi, lasciando campo aperto al virus. I risultati si vedono: il valore di R0 diventa 1,26. Apparentemente un buon risultato, ma dopo un po' si capisce che non è abbastanza. I casi continuano ad aumentare, anche se con un ritmo inferiore. I morti continuano ad accumularsi. Diventa chiaro che a trasmettere il contagio non sono solo i pazienti sintomatici, ma anche moltissimi contagiati che non presentano alcun segno. Però il materiale sanitario e i kit diagnostici scarseggiano. Non si riescono a fare abbastanza tamponi e molte persone non testate vengono messe in quarantena a casa loro, insieme ai propri familiari. Il numero di sanitari contagiati aumenta ancora. Alla fine saranno 1316, cioè il 5% di tutti i casi. Gli ospedali diventano luoghi di grande diffusione del contagio. Il ‘lockdown’ non è abbastanza! Se ci si limita alla difesa, il virus vince ancora.


Fin qui è una partita che purtroppo stiamo continuando a vedere, in Europa e negli Stati Uniti. Se dovessi riassumere quello che stiamo facendo, direi che ci siamo chiusi in difesa inasprendo progressivamente l’intensità del gioco a uomo, sperando di portare via almeno un pareggio con l’inizio della bella stagione. Però non è affatto detto che questo accadrà veramente. Il virus sembra abbastanza resistente da far pensare che il caldo non ne ridurrà drasticamente l’efficacia. Inoltre, dopo aver ripetuto con l’OMS che i test non servivano, ci stiamo rendendo conto di essere a corto dei materiali per costruirli, perché non avevamo fatto scorte, come non avevamo fatto scorta di protezioni.


Però la città di Wuhan, e più in generale la Cina, non si sono limitati a fare questo, e hanno ottenuto una grande vittoria. La vera lezione che ci ha dato la Cina, che è per noi di urticante attualità, consiste in quello che ha fatto nella terza fase. Calcisticamente, la Cina ha scoperto l’importanza della ripartenza e del gioco d’anticipo. Il 2 febbraio sono state adottate misure drastiche, che hanno portato il valore di R0 a 0,32: una riduzione esponenziale dei contagiati, fino alla quasi totale scomparsa già verso il 18 febbraio.



Credo che quest’ultima fase sia stata fortemente equivocata in occidente. Le immagini che abbiamo visto dai media dopo il 2 febbraio, con gli stadi pieni di lettini in perfetto ordine geometrico, ci hanno fatto pensare a misure possibili solo per uno stato autoritario. In realtà, la terza fase si è caratterizza soprattutto per una gestione estremamente intelligente della quarantena, che ha permesso di far fronte alla iniziale scarsità di risorse, in particolare di tamponi.

A Wuhan si capisce per la prima volta che se si vuole combattere contro questo virus quando è già molto diffuso bisogna anticiparlo, cioè impedirgli di diffondersi ulteriormente prima di averlo identificato. L’arma più efficace per farlo è l’isolamento: non tra le mura domestiche, ma in uno spazio controllato ed effettivamente privo di contatti. E’ per questo che a Wuhan si organizzano non uno, ma quattro diversi gruppi di quarantena.
Il primo gruppo è costituito da ospedali da campo, che ospitano tutti i pazienti con infezione accertata (tampone positivo). Solo questi pazienti vengono trasferiti negli ospedali veri, quando sviluppano una sintomatologia grave. Gli altri vengono trattati localmente, e dimessi quando il tampone si negativizza. Il secondo gruppo è costituito dai pazienti con sintomatologia tipica ma non ancora testati. Il terzo gruppo da pazienti con febbre o tosse, non ancora testati. Il quarto gruppo da tutti i contatti diretti dei pazienti ospitati nelle prime due quarantene. I casi sospetti vengono tutti testati, e trasferiti nel primo gruppo se positivi. I soggetti dei gruppi 3 e 4, vengono testati se manifestano un peggioramento, e trasferiti nel primo gruppo se positivi.





Questo sistema permette di raggiungere subito due risultati fondamentali: neutralizzare la trasmissione del virus da parte degli asintomatici, senza eseguire un numero enorme di tamponi; ottenere un flusso ordinato, verso gli ospedali convenzionali, dei pazienti più bisognosi di cure impegnative.
Per realizzare le strutture di quarantena, sono state utilizzate diverse tipologie di edifici: dagli impianti sportivi agli alberghi. Inoltre, è stata rafforzata la protezione degli operatori sanitari, con l’uso di tute, occhiali e maschere. Anche questa misura si è dimostrata molto efficace, azzerando gli ulteriori contagi tra il personale sanitario. Il crollo del numero di nuovi casi ha fatto capire quasi immediatamente che si era imboccata la strada giusta.

In conclusione, dopo essere stata travolta dal COVID-19, Wuhan lo ha messo sotto controllo in meno di un mese, non solo inasprendo la marcatura a uomo con il mantenimento di un ‘lockdown’ severo e con il rafforzamento della difesa dei sanitari, ma soprattutto prendendo in contropiede il virus, con la quarantena dei casi non accertati.

Il 28 marzo a Wuhan è iniziata la riapertura, dopo due mesi di blocco totale. La vittoria non è stata ancora definitiva, perché proprio ieri il livello di allerta è stato alzato di nuovo. Però sicuramente possiamo parlare di una prospettiva concreta di ripresa della normalità. 
Un problema nella storia che vi ho raccontato è che non sappiamo fino a che punto possiamo fidarci dei numeri della Cina: molti sospettano che la realtà sia decisamente peggiore di quanto propagandato. Però di sicuro la Cina non è stata travolta. Sarebbe impossibile nascondere una diffusione massiccia del contagio, se questo dovesse investire una nazione che ha un miliardo e 400 milioni di abitanti.


Il motivo che ci spinge a credere che i numeri della Cina siano tutto sommato abbastanza corretti è che altre nazioni stanno dimostrando che questo virus può essere affrontato con una strategia attiva. In Corea, l’epidemia è stata domata molto efficientemente con un approccio che potremmo definire più ‘a zona’. Lo si è fatto soprattutto identificando i soggetti da sottoporre al test con una formidabile operazione di tracciamento tecnologico, che ci ha inorridito per le possibilità di violazione della privacy. L’approccio coreano appare particolarmente efficace quando il virus non si è ancora molto diffuso nella popolazione. Restando in Asia, Taiwan si è dimostrata ancora più previdente, evitando il ‘lockdown’ con uno schema di gioco che ricorda molto il ‘Brasile samba’ degli anni d’oro.

Per tornare a noi, mi pare che abbiamo di fronte un grande rischio, ma anche grandi opportunità.

Il rischio è di continuare a guardarci l’ombelico, cominciando a fare processi alla nostra impreparazione e al perché non abbiamo pensato subito a fare scorte di mascherine, respiratori, test per il virus e materiali per costruirli. Nei giorni scorsi, sono stato nella schiera di quanti hanno cercato di far capire che fare più test è fondamentale. Su questo aspetto sono ormai disponibili analisi molto accurate, come quella di Luca Ricolfi sul Messaggero del 29 marzo. Fare processi a cosa non ha funzionato sarà fondamentale, per noi e per tutti gli altri, alla fine dell’epidemia, ma solo per evitare di rifare gli stessi errori in futuro. Adesso però non serve a niente. Se vogliamo uscire da questo incubo dobbiamo guardare avanti, e dobbiamo farlo con le risorse che abbiamo.

La grande opportunità è che abbiamo di fronte almeno due schemi di gioco che hanno funzionato bene, che possiamo limitarci ad adattare alle nostre peculiarità nazionali e alla situazione attuale delle diverse regioni colpite. Secondo me questi sono i punti fondamentali da considerare:
1.      Nelle zone in cui il contagio è molto diffuso e in cui è difficile eseguire molti tamponi, è verosimile pensare che il ‘lockdown’ non sarà sufficiente. Pur rallentando la curva epidemica, la chiusura non permetterà di ridurre i casi in tempi ragionevoli. In particolare non interromperà la trasmissione domestica. Pertanto, nei focolai a più alta intensità, sarebbe necessario attuare strategie di quarantena simili a quelle adottate a Wuhan, con l’isolamento sistematico fuori dalle mura domestiche dei casi certi, di quelli sospetti e dei loro contatti. Un uso limitato e controllato degli alberghi come strutture di quarantena andrebbe preso in seria considerazione. Tra gli altri vantaggi, una strategia di questo genere potrebbe portare una boccata di ossigeno ad uno dei settori della nostra economia più colpiti dalla crisi.
2.      Nelle zone in cui il contagio è ancora poco diffuso, l’identificazione rapida dei casi e la sorveglianza attiva dei loro contatti costituiscono probabilmente la strategia più efficiente per invertire la curva epidemica. Questo approccio va però supportato con un’adeguata capacità di esecuzione dei test per la ricerca del virus.
3.      Per giocare questa partita è necessario mettere in campo gli attaccanti migliori che abbiamo. Professionisti capaci di leggere correttamente le diverse situazioni epidemiologiche e di implementare rapidamente le soluzioni più efficaci. In Italia se ne vedono diversi esempi, tra cui non si può non citare il Prof. Andrea Crisanti, virologo ed epidemiologo dell’Università di Padova: ha messo a punto un test per analizzare i tamponi ‘fatto in casa’ quando nessuno pensava che il virus sarebbe diventato pandemico; ha fatto autonomamente scorte di reagenti per l’esecuzione di 100.000 test quando tutti dicevano che i test non servissero; ha influenzato la strategia di ‘lockdown’ e sorveglianza attiva della Regione Veneto, di cui già da due settimane si sono cominciati a vedere i frutti;  ha contribuito in maniera determinante a ‘sterilizzare’ il focolaio di Vò Euganeo; sta dimostrando l’efficacia dell’isolamento non solo nel prevenire il contagio, ma addirittura nella mitigazione della gravità della patologia. Data la drammatica situazione, mi pare fondamentale ascoltare molto attentamente i consigli che possono provenire da chi ha già dimostrato di avere la competenza e la visione necessaria per opporsi a questa epidemia.   
Il mostro COVID-19 può essere ricacciato sottoterra in modo relativamente rapido, anche senza farmaci efficaci e vaccini. La rapidità è tutto, se non vogliamo assistere a un continuo aumento nello spread dei morti, rispetto a quanti sono stati più previdenti di noi. Se non vogliamo che la nostra già fragile economia esca totalmente massacrata da questa sciagura. Però per farlo è essenziale avere grande decisione e saper giocare d’anticipo. 

Il catenaccio è una delle nostre grandi specialità nazionali, ma contro questo virus non è abbastanza, se non lo si associa a un robusto contropiede.




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